Curioso che abbia scoperto uno dei libri che mi è piaciuto di più in assoluto, tra le pagine di un libro che mi è piaciuto veramente poco. Infatti devo ringraziare Pennac che, nel suo super-noioso Come un romanzo, riporta le prime frasi di Delitto e castigo.
Quindi ho deciso di riproporre proprio quelle frasi, tralasciando trama e impressioni. Dopotutto queste poche parole mi hanno costretto a leggere un libro che si porta dietro una fama (per me immotivata) di pesantezza, in pochissimi giorni.
Premetto che non hanno niente di speciale, non succede niente... ma creano un'atmosfera particolare, ho letto quasi tutti i libri di Dostoevskij, in nessuno mi sono immedesimato così tanto e fin da subito, prima ancora di conoscere Raskol'nikov, ero già lui.
All'inizio di un luglio caldissimo, sul far della sera, un giovane uscì dallo stambugio che aveva in affitto nel vicolo S., scese nella strada e lentamente, quasi esitando, si avviò verso il ponte K.
Ebbe la fortuna di non incontrare per le scale la padrona di casa. Il suo stambugio si trovava proprio sotto il tetto di un edificio alto cinque piani, e sembrava più un armadio che una stanza. La padrona di casa che gli affittava quel buco, vitto e servizi compresi, abitava una rampa di scale più giù, in un appartamento indipendente, e ogni volta, per uscire in strada, egli era costretto a passare davanti alla cucina della padrona, che teneva quasi sempre spalancata laporta sulle scale. Ogni volta che passava davanti a quella porta, il giovane provava una sensazione vaga e invincibile di paura, e poichè se ne vergognava, faceva una smorfia di stizza. Era sempre in arretrato con l'affitto, e temeva di imbattersi nella padrona.
Non che fosse timido e vile a quel punto, tutt'altro; ma da un po' di tempo attraversava uno stato di irritabilità, e di tensione molto vicino all'ipocondria. Si era talmente chiuso in se stesso e isolato dal resto del mondo che la sola idea di incontrare qualcuno - non solo la padrona, ma chiunque - lo metteva in agitazione. Era afflitto dalla miseria; eppure persino le ristrettezze, negli ultimi tempi, non gli pesavano più. Aveva smesso del tutto di occuparsi dei problemi quotidiani, ed era ben deciso a continuare così. In fondo, non aveva affatto paura della padrona, qualsiasi cosa potesse macchinare contro di lui. Ma essere fermato sulle scale, costretto ad ascoltare ogni sorta di assurdità su stupidaggini di cui non gli importava un bel niente, le insistenze perché pagasse l'affitto,tutte le minacce e le querimonie che lo obbligavano a destreggiarsi, a scusarsi, a mentire - ebbene, no: meglio sgattaiolare in qualche modo giù per le scale e svignarsela senza farsi vedere da nessuno.
Quindi ho deciso di riproporre proprio quelle frasi, tralasciando trama e impressioni. Dopotutto queste poche parole mi hanno costretto a leggere un libro che si porta dietro una fama (per me immotivata) di pesantezza, in pochissimi giorni.
Premetto che non hanno niente di speciale, non succede niente... ma creano un'atmosfera particolare, ho letto quasi tutti i libri di Dostoevskij, in nessuno mi sono immedesimato così tanto e fin da subito, prima ancora di conoscere Raskol'nikov, ero già lui.
All'inizio di un luglio caldissimo, sul far della sera, un giovane uscì dallo stambugio che aveva in affitto nel vicolo S., scese nella strada e lentamente, quasi esitando, si avviò verso il ponte K.
Ebbe la fortuna di non incontrare per le scale la padrona di casa. Il suo stambugio si trovava proprio sotto il tetto di un edificio alto cinque piani, e sembrava più un armadio che una stanza. La padrona di casa che gli affittava quel buco, vitto e servizi compresi, abitava una rampa di scale più giù, in un appartamento indipendente, e ogni volta, per uscire in strada, egli era costretto a passare davanti alla cucina della padrona, che teneva quasi sempre spalancata laporta sulle scale. Ogni volta che passava davanti a quella porta, il giovane provava una sensazione vaga e invincibile di paura, e poichè se ne vergognava, faceva una smorfia di stizza. Era sempre in arretrato con l'affitto, e temeva di imbattersi nella padrona.
Non che fosse timido e vile a quel punto, tutt'altro; ma da un po' di tempo attraversava uno stato di irritabilità, e di tensione molto vicino all'ipocondria. Si era talmente chiuso in se stesso e isolato dal resto del mondo che la sola idea di incontrare qualcuno - non solo la padrona, ma chiunque - lo metteva in agitazione. Era afflitto dalla miseria; eppure persino le ristrettezze, negli ultimi tempi, non gli pesavano più. Aveva smesso del tutto di occuparsi dei problemi quotidiani, ed era ben deciso a continuare così. In fondo, non aveva affatto paura della padrona, qualsiasi cosa potesse macchinare contro di lui. Ma essere fermato sulle scale, costretto ad ascoltare ogni sorta di assurdità su stupidaggini di cui non gli importava un bel niente, le insistenze perché pagasse l'affitto,tutte le minacce e le querimonie che lo obbligavano a destreggiarsi, a scusarsi, a mentire - ebbene, no: meglio sgattaiolare in qualche modo giù per le scale e svignarsela senza farsi vedere da nessuno.
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